LA CELESTINA

 

NOTE CRITICHE

 

  

Nella mia impostazione registica la CELESTINA non dovrebbe intitolarsi TRAGICOMMEDIA DI CALISTO E MELIBEA, ma tragicommedia di celestina e melibea. L'autentico nucleo poetico non è infatti una storia d'amore finita tragicamente a causa delle convenzioni sociali (giulietta e Romeo), ma lo scontro tra due concezione e modi di vita: da una parte MELIBEA, i beni non "personali" e che dunque, metaforicamente, provengono da Dio - giovinezza, ricchezza, nobiltà, e anche verginità, in quanto appartiene agli "idola tribus", ai valori dell'educazione -; dall'altra CELESTINA, la "virtù" in senso machiavellico dell'individuo, di chi si è fatto da solo, dell'esperienza. Celestina, plebea, brutta, vecchia, disprezzata, è però la più forte, "costrige" alla verità Melibea, le impone la sua filosofia: in questo sta la grandezza di Celestina, per questo Celestina non si esaurisce nel ruolo della ruffiana, tratto d'unione fra Calisto e Melibea, ma è la protagonista dell'opera: al di là dell'interesse, Celestina agisce in proprio, è lei che usa per i suoi fini Calisto, non viceversa. No. La verità di Celestina è distruttiva, cancella i valori prestabiliti del vivere civile, la conscia o inconscia ipocrisia, ma non può contrapporre una società diversamente ordinata - Celestina, se non altro per atto di nascita, non è marxista! -: per questo Celestina è diabolica, è la "scienza" del diavolo.
Da questa concezione nasce lo spettacolo, la "pianta" della regia: i "luoghi deputati" di Melibea e di Celestina si affrontano come due reggie di pari e diversa nobiltà; e in mezzo c'è l'"agone", il luogo dello scontro. Ne deriva che la casa di Calisto è "degradata": Calisto e i suoi servi stanno in platea ed entrano in scena solo quando è necessario: non sono altro che l'occasione del dramma, non la causa della tragedia; e per questo la fine di Calisto deve essere "comica": non il veleno o il pugnale, ma un'"accidentale" caduta dalla scala.
Penso che da quanto ho detto si possano intuire i criteri delle mie regie: é indubbio anche per me che il teatro, nella sua concreta realizzazione, come spettacolo, é una forma "autonoma" d'arte, non l'illustrazione di un testo letterario e una eclettica somma di varie arti. Ma oggi rozzamente si crede che basti dare il primato al gesto "contro" la parola per fare del teatro "originale". In realtà i registi che non hanno capacità di fantasia filosofica saranno sempre condannati alla servile immaginazione figurativa, per quanto possano fare contorcere e muggire i loro attori; né si capisce perché la ragione non possa appartenere alla poesia. Da questo punto di vista gli scolaretti di Artaud sono anche falsi rivoluzionari: va benissimo ai padroni che i loro "nemici" spasimino e non ragionino.

Arnaldo Momo

 

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